L’azienda può comunicare con me tramite WhatsApp?
WhatsApp è diventato uno strumento abituale nell’ambito lavorativo, sia per la comunicazione interna che per la gestione quotidiana dei team. Tuttavia, il suo utilizzo al di fuori dell’orario di lavoro, in modo insistente o con una chiara componente di pressione, può avere conseguenze legali. In alcuni casi, può essere considerato una forma di mobbing.
Il diritto alla disconnessione digitale
La legislazione del lavoro spagnola riconosce espressamente il diritto dei lavoratori alla disconnessione digitale al di fuori dell’orario lavorativo. Lo Statuto dei Lavoratori, insieme alla Legge Organica sulla Protezione dei Dati e Garanzia dei Diritti Digitali (LOPDGDD), stabilisce che i dipendenti non sono obbligati a rispondere a comunicazioni, né via email né tramite messaggistica istantanea, durante i periodi di riposo, ferie o permessi.
Quando un datore di lavoro insiste nel comunicare al di fuori di tale orario o si aspetta risposte immediate, può violare il diritto alla disconnessione, il che potrebbe costituire un’infrazione lavorativa e persino una condotta riconducibile al mobbing.
Comunicazione fuori orario e molestie psicologiche
L’invio sporadico di un messaggio al di fuori dell’orario non implica necessariamente mobbing. Tuttavia, quando si verifica in modo reiterato e con richiesta di risposta, può generare una situazione di pressione psicologica continuativa. Questo può rientrare nel mobbing, più precisamente in quello che è stato definito “mobbing digitale” o “mobbing tecnologico”.
Questo tipo di condotte è stato oggetto di analisi giudiziaria. In una recente sentenza, un tribunale ha dichiarato illegittimo il licenziamento di una lavoratrice che aveva espressamente chiesto al proprio datore di lavoro di non essere contattata al di fuori dell’orario lavorativo. L’azienda non ha rispettato tale richiesta, elemento chiave per il riconoscimento dell’ingiustificatezza del licenziamento.
L’uso di WhatsApp come mezzo di molestia
Oltre alla questione degli orari, WhatsApp può essere utilizzato in modo abusivo nella quotidianità lavorativa. L’invio massiccio di messaggi, la creazione di gruppi in cui si esercita pressione o si ridicolizza il lavoratore, o persino l’esclusione deliberata da comunicazioni professionali rilevanti, possono contribuire a creare un ambiente ostile.
Quando queste pratiche sono persistenti e hanno un effetto negativo sulla salute psicologica del lavoratore, possono costituire mobbing.
In questi casi, non solo si viola il diritto alla dignità sul lavoro, ma si può anche incorrere in un reato contro l’integrità morale previsto dall’articolo 173 del Codice Penale.
Implicazioni penali del mobbing tramite mezzi digitali
Il Codice Penale prevede sanzioni per coloro che, in ambito lavorativo, sottopongono altri a situazioni continuative di molestia. Quando tali condotte provengono da superiori gerarchici, risultano ancora più gravi, trattandosi di un chiaro abuso di potere.
In contesti in cui l’uso di WhatsApp diventa lo strumento principale per esercitare tale controllo o pressione indebita, può essere considerato come prova valida di mobbing.
Screenshot, registrazioni dei messaggi e cronologie delle comunicazioni sono spesso elementi chiave in questo tipo di procedimenti.
Conclusione
L’uso di WhatsApp nell’ambito lavorativo non è, di per sé, problematico. Ciò che fa la differenza è il modo in cui viene utilizzato. La mancanza di limiti, l’eccesso di controllo e la pressione costante possono trasformare uno strumento utile in uno strumento di molestia. Per questo, sia i datori di lavoro che i lavoratori devono conoscere i propri diritti e doveri, e gli avvocati devono essere pronti ad agire di fronte a qualsiasi abuso.